matematica

Gradiente, Divergenza, Rotore

GRADIENTE di uno scalare = vettore

Molte grandezze fisiche (come la temperatura T, la pressione p, il potenziale elettrico V e gravitazionale U …) gradientepossono esprimersi con un solo valore e vengono dette grandezze scalari  Tali grandezze associate ai punti dello spazio definiscono i campi scalari T(x,y,z). Le variazioni  dello scalare dT al variare di dx, dy, dz cioè dTx/dx, dTy/dy, dTz/dz costituiscono il vettore gradiente  F dello scalare T(x,y,z):

F(Fx,Fy,Fz)  = – gradT(x,y,z)    =  –  ∇T(x,y,z)   =  – (dTx/dx*i+dTy/dy*j+dTz/dz*k)          (1)    

da cui    Fi*di = dTi     (1a)  ossia  ∫ Fi*di = ∫dTi     (1b)                 dove i = x,y,z

Il vettore gradiente è costituito dalle derivate dello scalare T rispetto alle ordinate spaziali dx, dy, dz.  Se T(x,y) rappresenta la quota del terreno, il gradiente dTx/dx (dTy/dy) è la pendenza del terreno lungo dx (dy) mentre gradT  dà la retta di max pendenza nel punto (x,y).

VETTORE E FLUSSO Molte grandezze fisiche (come la velocità, la forza, il campo elettrico e gravitazionale) vengono definite mediante vettori (costituiti da modulo, direzione e verso). Queste grandezze associate ad ogni punti dello spazio definiscono i campi vettoriali.        Consideriamo una superficie infinitesima dS (ad esempio dSx = dy*dz) il FLUSSO che attraversa la superficie dSx è:      Φx = Ex*dSx            (2)     mentre la quantità di flusso Ex che entra nel volume dv è dato dalla variazione di Ex lungo dx per la superficie dy*dz, cioè:       dΦx = dEx*dSx       (2a)

DIVERGENZA di un vettore = scalare

La derivata del vettore Ex lungo dx rappresenta la divergenza di E lungo x, cioè  divEx = dEx/dx.  La somma delle derivate lungo le diverse direzioni dà lo scalare divergenza del vettore E che è la variazione di E nell’elementino di volume dv = dx*dy*dz  divergenza

ρ(x,y,z) = divE  = dEx/dx+dEy/dy+dEz/dz   = ∇*E         (3)

Se moltiplichiamo per dv la derivata in x:  dEx/dx  tale valore costituisce la variazione di flusso dentro dv di E lungo dx:    dΦx = divEx*dv=dEx*dSx      (4)    (dove dSx = dy*dz).  Il flusso totale nelle 3 direzioni vale:

dΦ = divE*dv = dE*dS  = dρ/ε    (4a)

  La divE nel volume dv indica la presenza in dv di:     sorgenti (cariche) se divE > 0 ,      pozzi se div< 0.   In altre parole la variazione di flusso dΦ all’interno di un volume dv di superficie dS dà la quantità di carica dρ racchiusa in tale volume.    Ugualmente la divergenza divE nel volume v  è uguale alla  variazione di flusso E all’interno della superficie S del volume v:    ∫divE*dv = ∫ (dEx/dx+dEy/dy+dEz/dz)*dv = ∫dEx*dy*dz+ ∫dEy*dx*dz+ ∫dEz*dx*dy = ∫dEx*dSx + ∫dEy*dSy + ∫dEz*dSz = ∫E*dS = Φs

     ossia            ∫divE*dv = ∫E*dS = Φs = ρ/ε          (4b)   

Considerato il volume v costituito da tanti cubetti dv la (4b) può essere spiegata osservando  che i flussi che attraversano le facce interne danno un contributo nullo in quanto il flusso che esce da un elementino entra in quello successivo. Per cui il flusso totale è costituito solamente dal flusso che attraversa le facce esterne che compongono la superficie esterna S del volume v.

Combinando la (1) e la (2) si ha:                    divE = div*grad T = ∇²(T) = ρ/ε            (5)                (∇² = ∇*∇ è detto Laplaciano).

La (5) indica che un campo scalare (ad esempio la Temperatura) deve variare almeno con  legge quadratica per contenere una sorgente di calore.

ROTORE di un vettore = vettore

rotor1 Dato un elementino di piano dx*dy  e il campo vettoriale su tale piano cioè F(x,y)  il vettore rotore rotFz per il piano (x,y)  è la somma delle derivate dei 2 vettori sul piano lungo le 2 direzioni ad essi ortogonali                               rotFz = dFx/dy – dFy/dx      (7)

Considerando la circuitazione dell’elementino    dA = dx*dy     eseguita dal vettore F ossia  Σ F*dl

    Σ F*dl = F1x*dx- F2x*dx+ F2y*dy-F1y*dy  = (F1x-F2x)*dx + (F2y-F1y)*dy  =  dFx*dx – dFy*dy          che diviso per dA         Σ F*dl/dA = rotF    ossia     rotF*dA =  Σ F*dl    (8a) 

La (8) viene letta: il flusso del rotore F che attraversa l’area dA è uguale alla circuitazione dell’elementino dA da parte del vettore F .

rotor2

In forma integrale la (8) si scrive      ∫ rotF*dA = ∫ F*dl    (8b)

Considerato la superficie A costituito da tanti quadratini dA la (8a) può essere spiegata osservando  che i flussi che percorrono i lati interni danno un contributo nullo in quanto sono percorsi in senso inverso nel lato del quadratino adiacente, per cui la circuitazione totale è costituita solamente dai lati esterni cioè dalla curva che delimita la superficie A.

 

Teorema di Stokes Si osserva che con la     ∫ Fi*di = ∫dTi    (1b)     si ha la relazione tra l’integrale di linea i e l’integrale dei punti (scalare) T estremi della linea l;      con la    ∫ rotF*dA = ∫ F*dl   (8b)  si ha la relazione tra l’integrale di superficie A  e l’integrale di linea l contorno di A,   con la    ∫divE*dv = ∫E*dS     (4b)  si ha la relazione tra  l’integrale di volume v  e l’integrale di superficie S contorno di v. Il Teorema di Stokes descrive tutte e 3 le relazioni  in quanto considera il legame tra l’integrale su una V-grandezza a (n)dimensioni e l’integrale su una S-grandezza a (n-1)dimensioni,  in cui la S-grandezza è il contorno della V-grandezza.  …

 

Le leggi fisiche sono invarianti rispetto alla luce

Spazio e Tempo Assoluti  

Se volete sapere perché e in che modo lo spazio e il tempo si deformano potete leggere Il regno di LuxIn una pagina e con un filmato di 1 minuto viene spiegato come la luce con la sua velocità “definisce” il tempo e lo spazio dei corpi in funzione del loro moto. Se volete approfondire l’argomento leggete Spazio e Tempo. 

Oliver-HeavisideChi è costui nella foto?   Fino a pochi mesi fa non lo conoscevo nemmeno io è Oliver Heaviside. Rispetto a tanti altri “geni” della fisica ritengo che egli sia uno tra i più dimenticati e sconosciuti. Quasi  tutti hanno sentito parlare delle equazioni di Maxwell ma pochissimi sanno che esse sono costituite da 20 equazioni con una matematica complicatissima come i quaternioni.  Le 4 equazioni che oggi si studiano come Equazioni di Maxwell sono state scritte da questo individuo con un lavoro di pulizia e di semplificazione delle 20 equazione differenziali. Difficilmente le equazioni scritte da Maxwell potevano essere capite e gestite dai fisici.

Oliver Heaviside nacque a Camden Town, un sobborgo di Londra, il 18 Maggio 1850, da una famiglia povera e numerosa. A causa della scarlattina presa quando era molto piccolo perse gran parte dell’udito. Tale l’infermità gli resero molto difficili i rapporti con gli altri ragazzi e gli sconvolse per sempre la vita. I suoi risultati scolastici comunque erano molto buoni. L’unica materia in cui andava male era la geometria che trovava astrusa, ciò risulta strano per un personaggio che avrebbe segnato la storia della matematica e dell’elettromagnetismo. All’età di 16 anni Oliver, non ritenendolo il suo ambiente ideale, decide di abbandonare la scuola nonostante i buoni risultati. Poiché era il periodo d’oro dell’elettricità impara da solo l’alfabeto Morse e chiede al suo zio, il famoso Charles Wheatstone, di trovargli un lavoro. All’età di  18 anni si ritrova  con uno stipendio e un lavoro in una società di telegrafi.  Oliver non si può dire che amasse la scuola, ma di certo amava lo studio.  Dopo solo sei anni, alla giovane età di 24 anni, lascia il lavoro proprio per dedicarsi esclusivamente a studiare gli argomenti che più lo interessano.

Ciò che lo interessa soprattutto è la teoria dei campi elettromagnetici di J.C. Maxwell. Da autodidatta, dedicandovisi anima e corpo, studiò l’opera del fisico scozzese. Il grande fisico scozzese  alla sua morta lascia un lavoro mastodontico, complicatissimo, costituito da tecniche matematiche complesse (i quaternioni, ad esempio) e ben diverso dalle 4 eleganti equazioni che oggi portano (erroneamente) il suo nome.

Heaviside si trova a sua agio nella nuova teoria elettromagnetica e ne diventa un esperto come nessun altro: “ha una capacità di visione, di comprensione così profonda dei fenomeni elettromagnetici da rivoluzionare per sempre  tale campo della fisica. Moltissimi termini elettrici sono stati introdotti da Oliver: impedenza, reattanza, induttanza, permettibilità, suscettibilità e molti altri; sua l’invenzione del cavo coassiale, suoi i nomi di diversi effetti di elettrotecnica (effetto “pelle”, equazione delle linee) e tanti altre. Molti sono i successi,  di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’elettrotecnica, che non sono associati al suo nome. Per portare un esempio per primo, già nel 1888, Heaviside aveva calcolato la contrazione del campo elettrico per le cariche in movimento che avrebbe portato Lorentz a calcolare le contrazioni del corpi in movimento.

Oliver Heaviside è stato uno scienziato sperimentale, tuttavia il suo lavoro più straordinario è stato essenzialmente  teorico. Come spesso capita per molti scienziati sperimentali, la stima e la gloria nel tempo  venne  riversata ai fisici  teorici, più facilmente premiati con la definizione di “geni”.

I grandi fisici suoi contemporanei riconoscevano senza difficoltà la grandezza di Heaviside: Lord Kelvin lo definì “un’autorità”;  Lodge, lo presentò come uno scienziato “le cui profonde ricerche nel campo delle onde elettromagnetiche si sono spinte più lontano di quanto chiunque possa ancora comprendere”; e a sostenere la sua candidatura alla Royal Society erano gli stessi Kelvin e Lodge, Poynting, Fitzgerald e altri. Ma Oliver dai capelli rossi, piccolo di statura e mezzo sordo era abituato ad essere sulla difensiva, e sembra addirittura che gli onori che riceveva lo spaventassero più di quanto gli facessero piacere. Dopo qualche anno si ritirò in campagna, si isolò, e probabilmente peggiorò anche il rapporto con sé stesso, se è vero che era solito firmare i suoi documenti con la scritta “W.O.R.M.”, che però fingeva solo d’essere un acronimo.

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Il quanto: onda o particella?

Premessa. In ambito quantistico i fisici parlano di un mondo fatto di particelle e campi di forze, ma non è chiaro che cosa si intende per particelle e campi di forze, a riguardo si riporta  l’articolo: Che cosa è reale? di Meinard Kuhlmann. Il problema dell’interpretazione quantistica inizia già con le domande i quanti h  e gli elettroni sono  onde o particelle?

Onde di Materia. Ad esempio nell’effetto Compton, che descrive l’urto perfettamente elastico tra un fotone e un elettrone, si ha la conservazione dell’energia e della quantità di moto del sistema fotone-elettrone.  Da esso si ricava: La lunghezza d’onda di Compton λ = h/mv di una particella di energia E = m*c2  è uguale alla lunghezza d’onda di un fotone di uguale energia E = h*v. Cioè particelle e fotoni aventi uguali energie  (m*c2 = h*v) hanno la stessa lunghezza d’onda (di Compton) λ.

Il Vuoto come campo quantizzato. Riprendiamo la relazione E = h*ν (1) scritta nella forma h = E/si evince che  il quanto h costituisce l’energia di una singola oscillazione (del campo elettrico e magnetico). Poiché il fotone h (onda elettromagnetica) si propaga nel vuoto solo per quanti h, si può supporre che il quanto h sia una proprietà del vuoto, ossia che il vuoto possa oscillare solo per  quanti h = ΔE*Δt (con Δt  tempo di una oscillazione). Valori di energia*tempo inferiori ad h non producono oscillazioni/perturbazione del vuoto. In breve, con queste poche considerazioni si è passati dalle particelle che hanno una lunghezza d’onda ai quanti che si possono ipotizzare delle perturbazioni del vuoto.

Rappresentazioni del quanto. Il quanto h ha  le dimensioni dell’azione A cioè:  massa*velocità*spazio e vale h= 6*10-34Js, per cui potrebbe essere costituito da una quantoparticella di massa           m=E/c2 che si muove avanti e indietro con velocità +v e -v all’interno di una scatola di lunghezza Δx. Posta la variazione di velocità Δv = 2v,  si ha:   h= mΔv*ΔxNel diagramma (mv ; x)  detto spazio delle fasi, il quanto h è rappresentato dall’area m*2v*Δx.   Se la particella è il fotone h con lunghezza d’onda λ = c/ν e velocità  v= c (velocità della luce), quando il fotone/onda colpisce la parete l’onda riflessa interferisce con l’onda incidente, per cui:  Se la lunghezza Δx della scatola  è pari ad un numero interno di oscillazioni di lunghezza λ si ha una interferenza costruttiva fra l’onda incidente e l’onda riflessa; viceversa si ha una interferenza distruttiva delle due onde.  Nel primo caso le onde incidenti e le onde riflesse creano le onde stazionarie, per cui il fotone (quanto) oscillando su tutta la lunghezza della scatola  non può essere individuato in un punto, né ha una velocità in quanto onda stazionaria.

Il quanto h potrebbe essere costituito da una particella di massa/energia m= h/(c*λ) in rotazione attorno ad un punto distante r cioè dal vettore  momento angolare o momento della quantità di  moto:  h = L = r /\ m= r*P* sen(θ)  (prodotto vettore) avente valore pari all’area del parallelogramma definito dai  vettori r (distanza) e P (quantità di moto) e con direzione ortogonale al piano definito da tali vettori. Il prodotto vettore potrebbe essere calcolato anche  come: Lz = rx *Py – ry*Px , da  tale formula si nota che il prodotto vettore è anti-commutativo. Il quanto potrebbe, altresì, essere costituito da una particella con momento d’inerzia in rotazione attorno al suo asse con velocità angolare ω:   h = L = I*ω .  Il fotone-quanto h è comunque un vettore costante costituito dal prodotto di due grandezze fisiche.

Quanti e orbitali Consideriamo un oscillatore armonico costituito da una particella fissata  alla estremità di una molla in oscillazione, esso ha energia cinetica Ec = P2/2*m ed energia potenziale Ep = ½*k*x2.  Poiché l’energia totale E deve essere costante si scrive:     P2/2*m + ½*k*x2 = E       →      P2/2E*m + k/2E*x2  = 1.quanto ellisse  Questa è l’equazione dell’ellisse di semiassi   a = √(2E*m)  e   b = √(2E/k)  nello spazio delle fasi (P;x).    Ricordiamo che l’area dell’ellisse è un’azione e vale:   A = π*a*b =π*√(4E2*m/k)  =  2π*E*√(m/k) = E*2π /ω = E*t.  L’area dell’ellisse non può variare per valori infinitesimi ma solo per valori discreti: A= 1h, A= 2h, …  Poiché l’azione  A è quantizzata l’orbita di un elettrone, che ruota intorno a un nucleo atomico, viene interpretata come un’onda con una determinata lunghezza. Essa  è quantizzata in quanto contiene un numero intero di quanti h. Cioè il momento angolare L della particella deve essere uguale ad un numero intero n di quanti h: L = m*v*r =n*h.

L’orbita dell’elettrone,  come detto sopra contiene un numero intero di quanti h ossia di onde, per cui essa si comporta come una corda fissa agli estremi, di lunghezza l  uguale a quella dell’orbita. Nella corda può sussistere solo un numero intero di onde di lunghezze  l, l/2, l/3, … . Tali onde sono le onde stazionarie.  Cioè l’orbita percorsa dall’elettrone è costituita da onde stazionarie nello spazio, ossia l’elettrone si muove all’interno di onde stazionarie. Vediamo di interpretare la relazione: m*v*r = n*h . Da essa si deduce che  la particella m ruota con un momento della quantità di moto pari ad un numero intero n di oscillazioni h. Dal punto di vista energetico si può supporre che l’energia  della particella E = 1/2*m*v2  venga utilizzata per perturbare il vuoto con un numero intero di oscillazioni E= h*v, ossia che la sua energia venga a distribuirsi nel vuoto come quanti h di perturbazione. Il vuoto viene quindi ad essere un campo di oscillazioni (energia E= h/Δt) quantizzato.

La materia come onde stazionarie. L’onda stazionaria è composta da due onde della stessa lunghezza e intensità ma con velocità v opposte ossia:  v e –v.  Le onde stazionarie hanno particolari proprietà:

  • Non trasportano energia (l’onda ha velocita risultante nulla ma ampiezza doppia);
  • Sono stabili (interferiscono costruttivamente fra loro);
  • La sovrapposizione di più onde stazionarie è ancora un’onda stazionaria;
  • Hanno quantità di moto nulla (essendo costituite da onde con velocità opposte);
  • Accumulano energia ‘statica’ (l’energia è ferma ed è distribuita uniformemente su tutta l’onda).

Tutte queste proprietà ci inducono ad ipotizzare che la materia possa essere costituita  da onde stazionarie.  L’onda stazionaria, a differenza dell’onda singola, ha velocità nulla ed oscilla su tutto il suo sviluppo, tra massimo e minimo simultaneamente (i nodi dell’onda stazionaria rimangono fermi), essa inoltre non dipende dal tempo.

Orbita stazionaria dell’elettrone. Nel caso dell’orbita stazionaria dell’elettrone che ruota intorno al nucleo il pacchetto d’onda stazionario è descritto dalla funzione d’onda di Schrodinger Ψ.  Un’onda stazionaria nella sola direzione x è definita dall’equazione differenziale:     d2Ψ/d2x + 4π/λ2*Ψ  = 0      in cui Ψ è la funzione d’onda e rappresenta l’ampiezza mentre λ la lunghezza d’onda.

 Dalla relazione di De Broglie, che ipotizzò un comportamento ondulatorio anche per la materia,  λ = h/mv  sostituendo nell’equazione si ricava: d2Ψ/d2x + 4π h2/m2v2*Ψ  = 0 inoltre poiché l’energia cinetica T è la differenza dell’energia totale E e dell’energia potenziale V, cioè:      T = ½ m2v2 = E – V     →       d2Ψ/d2x + 8π h2/(E-V)*Ψ = 0   essa  è la funzione d’onda stazionaria  lungo x dell’elettrone.

L’intreccio quantistico Se consideriamo i due elettroni di uno stesso orbitale, per il principio di esclusione (di Pauli) essi hanno spin opposti ossia ruotano in senso opposto. I due elettroni inoltre risultano intrecciati (interconnessi) ossia: se si agisce su uno anche l’altro ne risente simultaneamente. Ritengo che la simultaneità di interazione tra le due particelle sia dovuta alla  stazionarietà dell’orbitale, ossia che l’intreccio quantistico sia dovuto alla stazionarietà dell’onda a cui appartengono entrambi gli elettroni. I due elettroni intrecciati possono essere raffigurati come pacchetti d’onde aventi onde in comune.

Rappresentazione della particella come pacchetto d’onde stazionarie. Abbiamo visto che l’elettrone, come il fotone dentro la scatola, percorre orbite stazionarie con un numero intero n di onde o quanti h (ricordiamo la L = m*v*r =n*h). Consideriamo allora l’equazione di un’onda di lunghezza  λ in moto con velocità v:  A = sen(x/λ+ v*t/λ) (1). Osserviamo che la frequenza dell’onda: ν = (x/λ+ v*t/λ) = 1/λ*(x+ v*t) possiamo scomporla in una frequenza “spaziale”: νs= x e in una frequenza  “temporale”: νt= v*t dovuta al moto e che, inoltre,  lo spazio x e la velocità v  sono simmetrici. E’ possibile allora avere onde in moto con x (lunghezze d’onda)  e v  (velocità) diverse ma  stessa frequenza v. Ad  esempio le onde con: (x= 1, v= 2),  (x= 2, v= 1), (x= 2,5, v= 0,5) in un intervallo t= 1 hanno tutte frequenza = 3/λ.  Esse cioè hanno nel tempo t quanti h  uguali: h/Δt = cost  cioè stessa energia h*ν = E = cost. L’insieme di tali onde  di lunghezze diverse possono formare allora un pacchetto  d’onde  più o meno compatto: Ossia OndediMateriapiù le lunghezza d’onda λi (velocità vi) sono diverse (Δv grande) più il pacchetto è concentrato (Δx piccolo).

Il rallentamento dell’onda (luce) si verifica nella rifrazione. La luce passando da un mezzo ad un altro con indice di rifrazione maggiore rallenta la sua velocità da c a c’ in quanto diminuisce la sua lunghezza d’onda da λ a λ’. In tal modo la sua frequenza di oscillazione v rimane costante: v = c/λ = c’/λ’. La luce quindi, anche se varia la sua velocità , non varia il suo numero di quanti h nell’unità di tempo, né la sua l’energia E = h*v =cost.

Finora abbiamo supposto onde (fotoni) con velocità diverse. Adesso, se ad ogni onda (fotone) con velocità ci accoppiamo l’onda gemella con velocità opposta -ci   avremo l’onda stazionaria come sopra detto.  Sarebbe in tal modo possibile ipotizzare un pacchetto costituito da un insieme di onde stazionare tutte con la stessa energia ma con lunghezze d’onda e velocità diverse. Si può altresì ipotizzare che tali onde stazionarie di uguali energie abbiano una distribuzione normale (gaussiana) nelle due dimensioni spazio-velocità (x,v). Tale pacchetto descriverebbe il comportamento dell’elettrone e spiegherebbe il principio di indeterminazione Δx*Δmv = h. 

Si  è visto come l’Azione può essere ottenuta come il prodotto di coppie di grandezze fisiche: Energia * TempoQuantità di moto * Spazio, Momento angolare * Rotazione, … Tali coppie sono definite come  momenti coniugati e la relazione tra loro ha un profondo significato sul modo di interpretare la fisica:

  • Il prodotto tra le lagragiane qi (energia, quantità di moto, momento angolare, …) e i rispettivi momenti coniugati pi dà la grandezza  Azione;
  • Nei fenomeni fisici, l’azione deve essere minima;
  • L’energia è quantizzata;
  • L’azione non può essere inferiore al quanto h di Planck;
  • Un’onda di qualsiasi frequenza (ossia un’oscillazione singola) ha azione h;

Ritengo da ciò che in un esperimento fisico si possono/debbono misurare i quanti d’azione.

Riassumendo. Ritengo che la rappresentazione della particella come pacchetto di sole onde possa descrivere in modo adeguato il principio di indeterminazione e la complementarietà onda/corpuscolo. Con tale  rappresentazione della particella risulta evidente che: più è facile rilevare l’aspetto corpuscolare più è difficile rilevare l’aspetto ondulatorio della particella. Si fa rilevare che la condizione necessaria affinchè il pacchetto d’onde sia stabile è che le sue onde debbano muoversi con velocità vi inversamente proporzionali alle loro frequenze vi: vi = 1/vi, cioè che sia verificata la relazione ∆x*m∆v = h.

Interpretazione della diffrazione di un elettrone con due fenditure.  Nel caso della diffrazione con due fenditure l’elettrone singolo, essendo costituito da un pacchetto d’onde attraversa entrambi le fenditure e interferisce con sé stesso. Quando l’elettrone diffratto colpisce lo schermo può interagire con tale schermo solo per quantità unitarie di carica (nel caso di diffrazioni di fotoni per quantità unitarie di h), per cui si condensa/materializza come particella nel punto in cui è massima l’intensità dell’onda diffratta.

Osservando i punti in cui il fotone/elettrone interagisce con lo schermo, questi punti formano la figura di diffrazione. Il fotone/elettrone viene a colpire lo schermo come onda in fasi (tempi) sempre diverse. Più numerosi sono i fotoni/ elettroni, più sono le fasi dell’onda rappresentate, meglio viene rappresentata l’onda  e il suo aspetto ondulatorio con la figura di diffrazione.

Ritengo che il passaggio dall’onda alla particella  si possa paragonare ad un passaggio di stato da vapore (diffuso nello spazio) a liquido (concentrato in una  goccia).

Calcolo della velocità assoluta

Premessa. La Teoria della Relatività Ristretta ipotizza la velocità della luce uguale per qualsiasi sistema di riferimento. Tale teoria, pertanto, esclude l’esistenza di un sistema di riferimento assoluto. Con la scoperta della radiazione fossile di fondo (RFF) risalente agli anni ’60, tuttavia, si può ipotizzare l’esistenza di un sistema di riferimento assoluto a cui riferire tutti gli altri sistemi. Chiamiamo questo sistema con la sigla S0. In tale sistema non si registrerebbe allora alcun effetto Doppler per la radiazione suddetta.  Si richiama l’articolo di Arrigo Amadori: Un sistema di riferimento “assoluto”.

E’ possibile ideare un esperimento che calcoli la velocità di un sistema rispetto a un sistema di riferimento assoluto?   Nell’esperimento di Michelson-Morley poichè il sistema di riferimento è uno solo la Terra oltre ai raggi di luce, dobbiamo supporre che la velocità sia da riferirsi al sistema luce. Osserviamo che i due raggi  di luce compiono, dallo specchio semi-riflettente ai due specchi, percorsi di andata e ritorno nei due bracci posti a 90° tra loro. L’esperimento dimostra pertanto che il tempo totale (di andata e ritorno) impiegato dai due raggi è uguale, qualunque sia la velocità del sistema.   Si può supporre che i tempi  impiegati dai due raggi siano  uguali proprio perché fanno percorsi di andata e ritorno.  Consideriamo, allora, un esperimento che confronti i tempi impiegati dai due raggi in percorsi di solo andata o di solo ritorno.

ESPERIMENTO: Consideriamo il sistema asta solidale alla Terra, di centro B, estremi A e C e lunghezza 2L. Sincronizziamo due orologi di alta precisione nel centro B dell’asta, trasportandoli a bassa ed uguale velocità agli estremi A e C dell’asta, al fine di avere rallentamenti relativistici trascurabili degli orologi (e comunque uguali) rispetto al sistema asta. Quindi facciamo partire nello stesso istante dal centro B due raggi di luce uno verso A e l’altro verso C. I loro tempi di arrivo: tA e tC siano registrati dagli orologi posti in A e C. Se i tempi risultassero uguali tA = tC non sarà possibile determinare il movimento del sistema asta  rispetto alla luce.

Se invece  i tempi di arrivo  segnati dai due orologi risultassero diversi di Δt = tc – t (asta in moto da A verso C) si dovrà dedurre che il sistema asta  è in moto rispetto al sistema luce. In particolare, sebbene non si conoscano i tempi impiegati dai due raggi ma la loro differenza Δt, si   possono scrivere le seguenti relazioni :Riferim Assoluto

  • per il raggio da B ad A: c*ta+v*ta = L      →    ta = L /(c+v)       (5a)
  • per il raggio da B a C: c*tc – v*tc = L       →    tc = L /(c-v)       (5b)

Poichè  tc – ta = Δt    sottraendo membro a membro si ha :         Δt =  L*(1/(c-v) -1/(c+v)) =        2*v* L/(c²-v²)    (6)

Con la (6)  noto Δt, considerando L senza contrazione, è possibile calcolare in prima approssimazione la velocità v del sistema asta lungo la direzione AC dell’asta. Nota tale velocità si calcola la contrazione dell’asta L e ricalcolare con la (6) il tempo e quindi la velocità in seconda approssimazione e così via.    Per trovare la velocità complessiva occorrerà, inoltre, ripetere le misure lungo le altre due direzioni ortogonali alla direzione AC dell’asta. Occorre evidenziare che le misure dei tempi di arrivo dei raggi in A e C viene eseguita con due orologi (sincronizzati come sopra indicato) posti nello stesso sistema di riferimento asta.

Vedi da Wikipedia: Esperimenti per misurare la velocità della luce a senso unico   L’esperimento di The Greaves, Rodriguez e Ruiz-Camacho.

Supponendo che la Terra (ruotando attorno al Sole, che a sua volta ruota attorno al centro della galassia …) abbia una velocità v = 3 km/s, posto L = 1.000 km. dalla (6),  si ricava una differenza di tempo Δt = 2*3* 1/(9×10^16)  = 6/9* 10^-12 secondi. Mentre se si ha un  Δt  = 10^-10  dalla  (6) si  può ricavare con buona approssimazione  una velocità  v  =  Δt*c² / 2*L =  10^-12* 9*10^18/2.000 = 4.500 m/s. Gli orologi atomici al cesio che hanno una precisione dell’ordine di 10^-16 sarebbero in grado di rilevare tale differenza di tempo.

Si può  allora supporre che la suddetta velocità v  sia da riferire al sistema di riferimento S0  della radiazione di fondo, che potremo considerare il sistema di riferimento assoluto.

Principio di Minima Azione: padre di tutti i principi …

Il Principio di Minima Azione (che indicheremo in seguito con PMA) sebbene sia poco conosciuto dai più, può considerarsi il padre di tutti i principi. Esso fu introdotto per primo da Maupertuis nel 1744.  Era già noto il principio di Fermat (1661 – 1665), che: un raggio di luce per andare da un punto a un altro, tra tutti i cammini possibili, percorrere il cammino che richiede il tempo più breve. Il percorso di un raggio di luce che attraversa due mezzi a velocità diverse può essere rappresentato con l’esempio del problema del bagnino. Un bagnino posto sulla battigia deve soccorrere un bagnante in mare. Sapendo che il bagnino si muove sulla spiaggia con velocità maggiore che nell’acqua, si vuole determinare qual’è il percorso con il minor tempo per raggiungere il bagnante.

Partendo dal percorso della luce Maupertuis ipotizzò che anche un corpo soggetto a forze segue il percorso più economico ossia di minima azione, definendo con azione la quantità  S = m*v*s [massa*velocità*spazio] su tutto il percorso. Essa verrà espressa meglio da Eulero come: S = F*s*t [forza*spazio*tempo]. Il principio di minima azione può esprimersi quindi: S = ∫F*s*dt = minimo.   A differenza della legge di Newton, che permette di calcolare la traiettoria punto per punto, il PMA permette di trovare la sola traiettoria reale tra le tante possibili. In effetti, tale principio, contiene la legge di Newton. Nel 1788 Lagrange utilizzò tale principio, per un sistema conservativo, mediante l’energia totale L del sistema. Successivamente, più in generale, Hamilton utilizzò l’energia totale H per un sistema qualunque e mostrò che le equazioni del moto si possono derivare dalla condizione di stazionarietà dell’azione (punti di minimo, massimo, flesso).

Fisica Newtoniana: Consideriamo un corpo P di massa m in moto, se vogliamo sapere la sua posizione nel tempo t dobbiamo conoscere: la sua posizione iniziale xio e velocità iniziale vio  (con i= x,y,z), nonché come varia la forza in ogni istante: Fi(t).              dalla 2° legge della dinamica:     F(t) = m*a(t)     si ricava    a(t) = F(t)/m      (1)    Nota l’accelerazione a(t) si ricava la velocità dopo un istante dt :    dv = a(t)*dt    (2),   la posizione del corpo:  s(to+dt) = so + vo*dt + ½*dv*dt    (3)    e  la velocità: v= vo+ dv. E’ possibile, in tal modo, definire in ogni istante t la dinamica del corpo.  lagrangiana.pdf La posizione e la velocità (x, v) del moto sono dette proprietà locali del moto. Il prodotto cartesiano     F = R³xR³, delle coppie di ordinate: posizione e velocità (x, v), viene chiamato spazio degli stati o delle fasi.       La lunghezza della traiettoria, la variazione di energia o la variazione della quantità di moto su tutto il percorso, sono considerate, invece, proprietà globali scalari (scalari in quanto definibili con un numero).

Fisica Lagrangiana. Utilizzando la proprietà  globale energia del sistema la formulazione di Lagrange permette di definire la dinamica del moto. Calcoliamo allora tale grandezza su tutto il percorso.             Ad esempio:

  • se la forza F dipende dalla posizione la si può integrare per tutto il percorso     -V = ∫F(x) *dx , tale grandezza viene chiamata energia potenziale;
  • se la forza F dipende dal tempo la si può integrare per il percorso x espresso in funzione del tempo (x = v*t):  T = ∫F(t)*v *dt  e viene chiamata energia cinetica.

Troviamo quindi  l’energia totale E del sistema  somma dell’energia cinetica T = ½ m*v2 e dell’energia potenziale V. Pertanto   E(x,t) = ½ m*v2  – V .    Se si deriva  tale energia rispetto al tempo si ha:      dE/dt   =  ½ m*d(v2)/dt – δV/δx*δx/δt   =   mv*a – F*v      →     dE/dt   = (m*a-F)*v    (4)

e per  la  2° legge di Newton (m*a – F = 0)    →     dE/dt = 0   Tale L’equazione esprime anche la conservazione dell’energia nel tempo.

Coordinate lagrangiane. Poichè nel formalismo di Lagrange interessa l’energia totale E del sistema, invece delle coordinate cartesiane (x,y,z), vengono utilizzate le coordinate lagrangiane qi, cioè le coordinate libere che tengono conto dei vincoli, mentre si tralasciano le coordinate con spostamento-lavoro nullo.                Esempi: Se il punto materiale è vincolato a muoversi sulla superficie di una sfera di raggio R, come coordinate di Lagrange qi si considerano le coordinate polari (gli angoli) θ e φ che definiscono la latitudine e la longitudine del punto sulla superficie, mentre non viene considerata lo spostamento ortogonale alla superficie in quanto in tale direzione, lo spostamento è nullo così come il lavoro. Se il punto è vincolato, invece, lungo una curva, come coordinata lagrangiana q si considera la coordinata lunghezza della curva.   Equazione di Lagrange Le coordinate q costituiscono quindi i gradi di libertà del sistema e possono avere le dimensioni di una lunghezza, di un angolo, …                        Di conseguenza le velocità  lagrangiane q’ = dq/dt  non hanno sempre le dimensioni di una velocità [m/s].    L’energia totale L funzione di dette variabili è detta lagrangianaL=L(q,q’,t). Si trova che la  derivata  dE/dt = 0 (4)  in forma lagrangiana è:

d/dt( δL/δq’) – δL/δq = 0      (4a)

La (4a) è composta da n equazioni  ed è scritta in funzione delle n coordinate  lagrangiane qi, (con i = 1,2, … n).  Le coordinate qi definiscono lo spazio C detto spazio delle configurazioni. (sinonimo di  posizioni permesse dai vincoli). Si osserva che con la  δL/δq’ si trova la parte dell’energia totale dipendente dalle velocità lagrangiane q’ come l’energia cinetica, mentre d/dt( δL/δq’) indica la variazione di energia cinetica nel tempo. Con la δL/δq si trova la parte dell’energia totale dipendente dalle coordinate  posizioni  qi , come l’energia potenziale. La (4a) esprime cioè, in una forma diversa, la conservazione dell’energia totale (cinetica e potenziale) in un sistema.   L’equazione di minima azione          dS = F*s*dt = min.         concettualmente può spiegarsi con l’esempio di un grave (con velocità nulla) posto su una superficie inclinata. Il grave fa uno spostamento elementare s nella direzione in cui il tempo di spostamento dt è minimo (cioè nella direzione di massima pendenza).

Esempio: Calcoliamo la lagrangiana (4a) per un corpo in moto verticale con velocità v soggetto a gravità g.  Il sistema ha coordinata lagrangiana q = h e q’ = dh/dt = v per  cui:   energia cinetica T = 1/2mv2   ed energia potenziale V(h) = – mg*h.  L’energia totale è:         

 L = T+V = 1/2mv– mg*h        (5) 

da essa troviamo che : dL/dh = 0 – mg          mentre     δL/δv = 2(1/2*m)v -0 = mv   e     d( δL/δv)/dt = ma per cui la Lagrangiana (4a):  dL/dh – d(δL/δv)/dt  =  ma – mg = 0,  ossia si ritrova la 2° legge del moto F = m*a.  Si osserva che dalla grandezze scalare energia totale del sistema si ricavano le equazioni del moto vettoriali nelle coordinate lagrangiane qi. Consideriamo adesso l’energia totale del sistema  L per tutto il tempo t  del moto, cioè:       S = ∫L(q,q’,t)*dt       tale grandezza scalare è detta azione.          Essa costituisce la somma dell’energia totale L per il tempo del moto per cui è una grandezza globale.  Si dimostra che dalla condizione:  δS =  δ ∫L(q,q’,t)*dt = 0      (6)    si ricava il sistema di equazioni lagrangiane:  d/dt( δL/δq’) – δL/δq = 0   (4b).

Relatività Ristretta. Si fa rilevare che nella R.R. in sistemi di riferimento inerziali (in assenza di forze F = 0), lo spazio*tempo rimane costante: s’*t’ =  s*t. Infatti mentre lo spazio si contrae con la velocità lungo la direzione del moto il tempo si dilata: s’ = s*(1 – v2/c2)   e   t’ = t/(1 – v2/c2).  (Vedi Relatività Ristretta e Principio di Minima Azione)

  Se consideriamo adesso il PMA nella forma espressa da Eulero: S = F*s*t  [forza*spazio*tempo] e tenuto che F=0 in quanto sistemi di riferimento inerziali, l’azione S = F*s*t si riduce  solo allo spazio*tempo  s*t che, come visto sopra, risulta costante.  Possiamo ipotizzare che anche la relatività ristretta sia un caso particolare del PMA, o che almeno abbia un legame particolare.

Relatività Generale. In breve tale teoria nasce nel supporre che:

  • la massa gravitazionale e la massa inerziale siano la stessa cosa;
  • la gravità può essere sostituita localmente da una accelerazione;
  • la forza gravitazionale non si propaga istantaneamente ma alla velocità della luce.

Tenuto conto di quanto sopra: la R.G. sostituisce la forza gravitazionale F con la  curvatura dello spazio-tempo. Tale curvatura si propaga alla velocità della luce.            Se consideriamo adesso il PMA nella forma espressa da Eulero: S = F*s*t   [forza*spazio*tempo] non considerando la forza (gravitazionale) F. L’azione   S = F*s*t   si riduce  solo allo spazio*tempo  s*t e il moto avviene lungo linee geodetiche, che hanno (per definizione) lunghezza spazio-tempo minima. Sembra quindi che anche la R.G. , con le sue linee geodetiche, sia un caso particolare del PMA.

 

Riferimenti circolari e iterazioni con Excel

Introduzione  Si premette che per la realizzazione dei suddetti esempi è stato utilizzato un foglio di calcolo Excel. Quando una formula fa riferimento direttamente o indirettamente alla propria cella, si verifica un riferimento circolare e il calcolo non viene eseguito. E’ possibile, tuttavia, consentire il funzionamento di un riferimento circolare attivando la casella di controllo Iterazioni. In questo caso il calcolo viene eseguito utilizzando i risultati dell’iterazione precedente. Si mostrerà come tale procedura sia utilissima per risolvere, con pochissime formule, molti calcoli iterativi: integrazioni di funzioni, calcolo radici di equazioni, calcolo equazioni differenziali, ecc..

Impostazione  Consentiamo, quindi, il funzionamento di un riferimento circolare.          1. Scegliere Opzioni dal menu Strumenti, quindi scegliere la scheda Calcolo.                2. Selezionare la casella di controllo Iterazioni;                                                                3. Impostare Numero massimo=1;                                                                                    4. Impostare il calcolo su Manuale.                                                                                      In tal modo: Tasto F9 calcola le formule di tutte le cartelle di lavoro; Tasto MAIUSC+F9 calcola solo le formule del foglio di lavoro attivo.

Con tale impostazione possiamo, scrivere adesso formule con riferimenti circolari. Ad esempio: ponendo la cella [A22] “= [A22]+1”, ad ogni F9 la cella [A22] aumenta di 1.

Alcune regole Creazione di variabili e di funzioni Per potere utilizzare l’iterazione è necessario che almeno una cella ad ogni iterazione vari il suo valore. Se, ad esempio, poniamo [A22] “=A22+A21”, con [A21] “=0,1” la [A22] ad ogni F9 si incrementa di 0,1 in questo modo abbiamo creato la variabile [A22] .Se scriviamo, allora, nella cella [A23] una formula contenente la variabile [A22] abbiamo reso la cella [A23] funzione della variabile [A22]. Iterando, infatti, n volte con F9 vengono calcolati n valore della funzione. Condizioni iniziali Con la formula [A22] “=A22+A21” la variabile [A22] ad ogni iterazione si incrementa di A21. Per resettare la variabile e potere ripartire da zero, si può utilizzare una cella “test” e scrivere la formula con la condizione: [A22] “= SE(A21;A22+1;0)” (che significa: se la cella A21=”VERO” (ovvero diversa da zero) allora A22=A22+1 (incremento), se invece A21=”FALSO” (ovvero uguale a zero) allora A22=0 (azzeramento). Per fare iniziare la variabile x (cella A21) con un valore xo deve essere utilizzata un’altra cella in cui deve porsi la formula: “=A22+xo” (vedi applicazione).

Posizione delle celle Bisogna tenere presente che nell’iterazione i calcoli non vengono eseguiti contemporaneamente in tutte le celle, ma iniziano dalla cella in alto a sinistra e finiscono con la cella in basso a destra. Pertanto la variabile deve essere posta prima della funzione. La funzione y(x), per il suddetto motivo, rimane indietro rispetto alla variabile x di un incremento dx. Si può tenere conto di ciò indicando in altra cella il valore effettivo della variabile “=x-dx” (tale cella non potrà essere utilizzata in altre celle per i calcoli).

Numero Iterazioni Se per il calcolo si pone: Numero massimo = n, ad ogni F9 il programma esegue n iterazioni. Si può, pertanto, utilizzare questa impostazione quando non è necessario conoscere i valori intermedi ma solo il valore finale del calcolo.

Applicazione Vediamo ora di applicare l’iterazione al metodo delle differenze finite per la risoluzione delle equazioni differenziali. Consideriamo l’Eq. Diff. : y’ = y, con la condizione iniziali y0 = 1. Per il calcolo utilizziamo il metodo delle linee spezzate di Eulero, per cui la y’(t) = y, viene calcolata passo passo: y1 = yo + y’o * dt ; y2 = y1 + y’1 * dt; … (con dt = 0.01). Per prima cosa, creiamo la cella “variabile”, ponendo [F21] = SE(A21=1;F21+0,01;0), in tal modo la cella ad ogni F9 si incrementa di 0.01.        poniamo inoltre:

  •  [E22] = SE(A21=1;E22+F22;0);
  •  [F22] = SE(A21=1;E23*0,01;0);
  • [E23] = 1+E22 cioè:
  • la [E22] = Σ(y’i * dt) inizia da 0 e ad ogni iterazione si incrementa di [F22];
  • la [F22] = y’i * dt calcola l’incrementino [E23]*0,01;
  • la [E23] = yi aggiunge il valore iniziale yo = 1 a Σ(y’i * dt).

All’iterazione ennesima, pertanto, viene calcolato il valore yn. Ponendo (dt=0,01) si ottiene y(1)= 2.705, mentre per dt=0,001 y(1)= 2.717 (il valore esatto è EXP(1) = 2.718…). (Una migliore approssimazione si ottiene se si applica la formula di RungeKutta). Per risolvere, quindi, una generica Equazione Differenziale x’= f(x,t) con qualsiasi condizione iniziale xo, si può porre:

  • [A2] = 0.001 = dt incremento
  • [A4] =SE(B2;A4+A2;dt)= t variabile (incrementata di dt)
  • [B2] = Falso (0) , Vero (1) (nome “res”) “Falso” per azzerare; “Vero” per iterare [C2] =1 = x0 = valore iniziale;
  • [B6] =A4-A2 = t-dt valore effettivo di t (ritardato di un dt);
  • [C4] = C5+C8*dt = somma l’incremento corrente C8*dt a tutti gli incrementi precedenti C5;
  • [C5] = SE(B2;C4;0) cioè: se B2=1(vero) C5=C4 ;
  • se B2=0(falso) C5=0 ;
  • [C6] = C2+C5 somma a tutti gli incrementi C5=Σ(xi*dt) il valore iniziale C2=x0; [C8] = C6 = x

In questa cella viene scritta l’ Eq. Diff. (nel nostro caso x’ =x ) Nell’iterazione la [C8]  rimane indietro rispetto a t di una iterazione dt, pertanto si fa partire il tempo t in anticipo di dt cioè: [A4] = t = SE(B2;A4+A2; dt) Si noti che, per il calcolo di una generica E.D., devono essere cambiate solo le celle [C2] e [C8]. Le rimanenti 7 celle costituiscono la “struttura” del programma. Utilizzando altre celle è possibile calcolare contemporaneamente altre Eq.Diff.

Nella figura

con le celle [C1:E8] si possono calcolare 3 E.D. (ovvero un sistema di 3 E.D.) del 1° ordine, mentre, con le celle [C10:E23] si possono calcolare 3 E.D. (ovvero un sistema di 3 E.D.) del 2° ordine. Nella colonna F sono state riportate le espressioni che devono essere scritte nelle celle di colonna E. Scritte le formule nelle celle in una colonna basterà trascinarle nelle altre 2 colonne per trascriverle.

Conclusione

Con tale procedimento:

  •  E’ facile creare “programmi” senza alcuna riga di programmazione;
  •  I “programmi” in genere sono costituiti da pochissime celle;
  • Ogni “programma” può essere clonato copiando il range di celle;
  • Utilizzando le diverse funzioni logiche del foglio elettronico è possibile inserire nel “programma” svariate condizioni di calcolo;
  • E’ possibile eseguire contemporaneamente diversi tipi di calcoli;
  • E’ possibile fare interagire più “programmi” utilizzando le funzioni logiche del foglio di calcolo;
  • Se, durante l’iterazione, i valori calcolati vengono riportati in una tabella, essi potranno essere rappresentati in un grafico a “dispersione (xy)”.

Sono rimasto meravigliato ed entusiasta per la semplicità e potenza di calcolo di tale procedimento: con poche cellette e senza alcuna riga di programmazione ho potuto calcolare integrali, radici di equazioni, equazioni differenziali, e risolvere contemporaneamente diverse equazioni o sistemi di equazioni differenziali !!!

Ritengo che le potenzialità di tale procedimento siano ancora poco conosciute e che molti altri aspetti devono essere studiati, sperimentati, e sviluppati. E’ molto gradita, pertanto, la partecipazione degli utenti interessati alla creazione di nuovi “programmi ” e allo sviluppo di tale procedimento di calcolo. Molti altri problemi, infatti, possono essere studiati con il metodo iterativo: equazioni dinamiche discrete, equazioni di La Place, … che spero di trattare in un prossimo articolo. Alcuni files con il suddetto procedimento sono scaricabili dal sito.

 

Godel: Matematica coerente ma incompleta.

Vogliamo valutare se questa frase è vera. “Questa affermazione non può essere dimostrata“.

  1.  Se ritengo che essa sia  vera, significa che essa non può essere dimostrata, cioè che non può essere verificata;
  2.  Se ritengo che essa non sia vera, significa che essa può essere dimostrata, cioè che può essere verificata;

Nel caso 1 la frase è vera ma non può essere verificata; nel caso 2) la frase non è vera ma può essere verificata. In entrambi i casi comunque essa è sia vera che falsa.

Analogamente,  “Questa frase è falsa”  :  1 Se ritengo che sia vera significa che è falsa; 2) Se ritengo che non sia vera significa che non è falsa.

Indecidibilità. Queste frasi/formule sono indecidibili, cioè non si può decidere se sono vere o false. Ossia non si può dimostrare nè che la frase-formula (φ) sia vera, né che sia non vera (¬φ).  Si noti che queste frasi sono autoreferenziali, cioè si riferiscono a se stesse. Una teoria matematica si ritiene tale se è sufficientemente espressiva, auto-referenziale e in grado di rappresentare funzioni ricorsive, ovvero se permette di definire i numeri naturali (1, 2, 3, …).

Teoria completa. Una teoria T si definisce completa se è possibile in T dimostrare o confutare formalmente qualsiasi enunciato nel linguaggio della teoria, ovvero se per ogni formula φ è possibile o dimostrare φ   o dimostrare il suo contrario ¬φ. In essa cioè non esistono formule indecidibili.                                                                         Viceversa una teoria T si definisce incompleta se esiste una formula φ  che non è possibile dimostrare o  dimostrare il suo contrario ¬φ. Cioè se al suo interno esistono formule indecidibili ( autoreferenziali).

Teoria coerente (consistente). Una teoria si definisce coerente se in essa è  impossibile dimostrare una contraddizione, (cioè non è possibile dimostrare  che una formula φ sia vera e che sia vera la sua negazione (¬φ). Viceversa una teoria è incoerente se al suo interno è possibile dimostrare una formula contraddittoria, ossia non esiste una formula φ  indecidibile. Ovvero esiste una formula φ per cui è possibile dimostrare tale formula φ e la sua negazione ¬φ.

Primo teorema di incompletezza di Gödel. Come detto sopra, in ogni teoria matematica coerente T è sempre possibile definire una formula logica φ indecidibile,  ossia è sempre possibile definire una formula che non può essere né dimostrata né confutata al suo interno. (La teoria è incompleta in quanto non riesce ha dimostrare una formula  indecidibile). 

Dal fatto che in una teoria coerente-consistente esiste almeno una formula  indecidibile, si dimostra il  Secondo teorema di incompletezza di Gödel:     Nessun sistema coerente (essendo incompleto), può dimostrare la sua stessa coerenza.

Si giunge cioè al risultato sconcertante che ogni teoria matematica coerente è incompleta  e non è autoconsistente, (non può dimostrare la propria consistenza).        In altre parole si dimostra matematicamente che essa riconosce i propri limiti.

Da wikipedia: Il primo teorema di incompletezza di Gödel dimostra che qualsiasi sistema che permette di definire i numeri naturali è necessariamente incompleto: esso contiene cioè affermazioni di cui non si può dimostrare né la verità né la falsità.

Ciò che Gödel ha mostrato è che, in molti casi importanti, come nella teoria dei numeri, nella teoria degli insiemi o nell’analisi matematica, non è mai possibile giungere a definire la lista completa degli assiomi che permetta di dimostrare tutte le verità. Ogni volta che si aggiunge un enunciato all’insieme degli assiomi, ci sarà sempre un altro enunciato non incluso.

Consideriamo ad esempio la geometria euclidea composta da 5 assiomi (a proposito si è dimostrato che sono necessari 21 e non 5 assiomi per la nostra geometria euclidea), essa è coerente ma è incompleta in quanto si possono aggiungere altri assiomi.  Se si elimina un assioma, ad esempio il postulato delle parallele,  si ottiene un’altro sistema incompleto ma coerente  (nel senso che il sistema non dimostra tutte le proposizioni vere). L’essere incompleto significa che esso non include tutti gli assiomi necessari a caratterizzare un specifico modello, ma a caratterizzare più modelli (geometria euclidea e geometrie non euclidee).

 

La trasformata di Legendre

Considerati i punti di una funzione f(x) la trasformata di Legendre g(p) può essere rappresentata come i valori cambiati di segno delle intercette sull’asse y  delle  rette tangenti (inviluppo) alla funzione (curva) f(x) con pendenze p= f’(x)

                         g(p)= max( p*x –f(x))    (1)


legendre(1)In figura la tangente alla f(x)= x2+1 nel punto (0,7; 1,49)  ha pendenza p= f’(0,7) = 2*x = 1,4 e intercetta l’asse y nel punto g(p) = f(xi) – p*xi = 1,49- 1,4*0,7 =0,51.  Sono riportate, in fuxia, altre tangenti  alla f(x)  che intercettano l’asse y in altri punti g(p) e in blu d(g(p))tratteggiata la curva g(p)  . 

La trasformata di Legendre può essere, altresì, definita: Dato un punto f(xs) della curva e considerato il fascio di rette parallele    y(k)= p*x +k    di pendenza    p= f’ (xs), quella che è tangente alla curva deve avere k = f(xs)-p*xs , cioè deve intersecare l’asse y in -g(p). In figura il fascio di rette è:  y(k) = p*x – k  La retta tangente si ha per k = f(xs)-p*xs= 1,25 – 1*0,5 = 0,75 = g(p). 

La trasformata di Legendre è una involuzione cioè se applicata due volte dà il valore originario (ad esempio se si inverte due volte un numero razionale si ottiene il numero di partenza).

Si osserva che se si deriva rispetto alla variabile p la (1):        g(p)= x*p -f(x)     si ricava    x  =  d(g(p))/d(p)   (2)    ricordando che p = f’  si  può scrivere   x  =  d(g(p))/d(f’)   (2a).  Si fa osservare dalla (2a) che, con la trasformata g(p) della funzione f(x), nella derivata  f’ = df(x)/dx,  si inverte la x con la f’ (= p) .         

Vediamo di ricavare la g(p) mediante la (1).

Consideriamo f(x) descritta con il monomio:    f(x) =α*xn  ,  calcoliamo           p = f’(x)  →     p = α*n*xn-1   il differenziale  è: dp = α*(n-1)*n*xn-2*dx    →  x*dp = α*(n-1)*n*xn-1*dx     per la (1)     dg(p) =  x(p)*dp      →     dg(p)  =   α*(n-1)*n*xn-1*dx  =    d(α*(n-1)* xn)     quindi       g(p) = α*(n-1)*xn-1*x  =  α*n*xn-1*x – α*xn  =  p*x –f.                                        La funzione che verifica la (1) è  quindi:  g(p) = p*x-f(x).

Esempio: Consideriamo la funzione in figura f(x)= x2 +1    da cui       g(p) = p*x- x2 -1    il minimo si ha per      g’(p)= p – 2*x = 0     ossia   per     x(p) = p/2        f(p)= p2/4+1.     Se x=0,5 ,    p(0,5) = 1 ,   g(0,5) = 1*0,5- 0,52 -1 = – 0,75.

In analisi funzionale, si ricorda che la Lagrangiana esprime l’energia totale del sistema  L(qi,t) =T – V  (con T E.cinetica e V E.potenziale) mediante le coordinate q(xi,t),  l’hamiltoniana H invece esprime l’energia totale del sistema con le derivate q’ delle coordinate lagrangiane, ossia H(qi‘,t). Cioè l’hamiltoniana  H  costituisce la trasformata di Legendre della lagrangiana  L del sistema:   p = dL/dq’     se si inverte p con q’  si ha:    q = dH/dp’  con la trasformata H = p*q’ – L.

Legge oraria e … polinomio di Taylor

Polinomi. Se di una funzione y = f(x)  conosciamo n punti (x1, y1);  (x2, y2); …( xn, yn), la funzione più semplice che approssima la f(x) è il polinomio di grado n-1:         Pn-1(x) = a0 + a1x + a2x2 + … + an-1xn-1   che passa per tali punti. Ad esempio, se si conoscono 2 punti si può scrivere il polinomio di grado 2-1 (equazione della retta) ed imporre la condizione che passi per tali  punti, cioè  il sistema di 2 equazioni con 2 incognite:

  • a0 + a1 x1 = y1
  • a0 + a1 x2 = y2

 Trovati i valori delle incognite a0, a1, si può scrivere l’equazione della retta ossia il polinomio di 1° grado P1(x) :  y = a0 + a1x    (1) .

Se si conoscono n+1 punti possiamo scrivere un sistema di n+1 equazioni con n+1 incognite, calcolare le: a0, a1, … an e quindi :        Pn(x) = a0 + a1x + … +anx      (2)          Più punti della funzione  y = f(x) si conoscono migliore è l’approssimazione del polinomio alla suddetta funzione.

Rappresentiamo,  adesso, in figura gli addendi del polinomio P2(x) = a0 + a1x + a2x2  (si limita lo studio al polinomio di 2° per brevità di esposizione). I coefficienti ai  hanno un  significato fisico? Consideriamo l’Area del Polinomio (ossia l’area sottesa dal Polinomio tra 0 e x),  il 1° addendo delimita un rettangolo di area A1= x*a0; il 2° addendo un triangolo di area :     A2= x* a1*x/2, il 3° addendo una parabola di area A3= x*a2*x2/3.   L’area  totale è:    A(x) = (a0+a1*x/2+a2*x2/3)*x.

Legge oraria. Se diamo alla funzione polinomiale il significato fisico della funzione accelerazione a(t) = P(t) si vuole  calcolare lo spazio percorso da un punto nel tempo t.  In figura (a) è rappresentata la funzione accelerazione    a(t)= ao+a1*t.    Posto t = t1 – t0 , l’area sottesa da  a(t) con l’asse t  dà  la velocità   v(t) = v2 +v3 = ao *t+ a1*t2/2     (3)   Polinom1

In figura (b) è rappresentata la funzione velocità v(t). L’area sottesa rappresenta lo spazio  s(t) = so+vo*t+ao/2!*t2+ a1/3!*t3     (4)   avendo indicato con so  il valore iniziale. Si evidenzia che: vo rappresenta la velocità v all’istante t= 0  vo= ds/dt= s’o;    ao    l’accelerazione all’istante t= 0 ao = d2s/dt2= s”o  …,  per cui la (4) può  essere riscritta con le derivate in un punto t, ossia come polinomio di Taylor :                                       s(t) = so+s’o*t1+s”o/2!*t+ s”’o/3!*t3   (4a)

Polinomio/Serie di Taylor. Tale serie, costituita appunto dai valori delle derivate della funzione f(x)  in un punto (continua e derivabile in un punto x), approssimano la funzione f(x):

       y(x) = y+y’ *(x – x0)+y’’/2!*(x – x0)2+ y’’’/3! *(x – x0)3 + …+ yn‘/n!*(x – x0)n    (4b)

Polinomio/Serie di McLaurin. Se scegliamo  x0=0  il suddetto polinomio diventa  di McLaurin:     y(x) =   y(0)+y’(x)*x+y’’(x)/2!*x2+ y’’’(x)/ 3!*x3+ …+ yn’(x)/ n!*xn    (4c)     

Esempio: Data la funzione y(x) = 2*x 2 + x  si vuole calcolare la Serie 
di Taylor  per x0=1.  
Si ha:  y(1) = 3,  y’(1) = 4*x +1 = 5, y"(1) = 4.
y (x) = y + y’*Δx+y"*Δx2/2 = 3+5*Δx+4*Δx2/2 = 3+5*Δx+2*Δx2 
Per x=2, Δx =x-x0= 1   P2(x=2) =  3+5*1+2*12 = 10.
Per x=3, Δx =x-x0= 2   P2(x=3) =  3+5*2+2*22 = 21.
 La Serie di McLaurin:  x0=0 ,  y(0) = 0,  y’(0) = 1,   y"(0) = 4  
 quindi y(x) = y(0)+y’(0)*x+y"(0)/2!*x2 = 0+1*x+4/2*x2  = 2*x2 + x.          

Altro metodo per trovare gli ai. Consideriamo il polinomio  Pn(x) = a0 + a1x + … +anxn    come la somma di n funzioni   yi(x) = aixi  con. Calcoliamo il coefficiente ai derivando la y(x) i volte: i’ = i!*ai      da cui si ricavano i coefficienti  ai = i’ /i!   della serie.

Nota: Se si eguagliano i termini della (2) e della (4b) si trovano i valori dei coefficienti aia0 =y, a1 =y’/1!, a2=y”/2!, … an=yn’/n!. Si osserva infatti che la derivata di ai*xi é: i*ai*xi-1 e che la derivata i-esima di ai*xi é : yi’ = i!*ai.